Si annida come un serpente. E alle 5 del mattino, ti svegli, e lei ti tiene lì, teso come una corda di violino, l’anima che stringe le sue radici al ricordo o atto vissuto come tradimento o abbandono.
C’è poco da fare. Stai lì e maceri e incattivisci. In quel momento, se non fosse per i secoli di cosiddetta civiltà, torno ad essere selvatico, scostante, col bisogno di un antro, un rifugio, dove leccarmi le ferite.
I minuti passano e la frustrazione monta, si addensa, cambia consistenza, potrebbe a tratti divenire rancore. Pericoloso, il rancore, coi suoi difetti di vista, che la rabbia potrebbe defitivamente accecare, e non conoscere più ragioni.
Mi alzo, cerco nel buio, a terra, il libro appena iniziato. Non sempre leggere aiuta. Delle volte, il solo pensiero di distrarmi mi rende ancora più indisposto. Oggi però è diverso. L’ho lasciato lì da Natale, quel libro. Non avevo fretta, ma soprattutto non ero pronto. Anzi, non era tempo. Adesso lo è. L’anno è cominciato tutto così, con questi piccoli cambiamenti nell’aria che avanzano come la primavera. I semi disseminati germogliano. Anche quelli del limone che con le unghia ho scalfito, non l’avrei mai detto, eppure c’è un giovane virgulto che cerca terra, che affonda la sua potenza in nuce.
Alcune pagine sono per quando capita, ma non è questo il caso. Le pagine giuste incanalano il grumo di energie compresse e buie tra le immagini che risalgono dalle righe e se non lo sciolgono, almeno lo ammorbidiscono. Certo, mi domando: perché non far esplodere tutto? mandare all’aria il castello, e chi s’è visto, s’è visto. Si, potrebbe essere una soluzione, una volta tanto togliersi un sassolino dalla scarpa, far eruttare il vulcano e rompere la crostra di anni a contenere. E dopo? A me vengono in mente solo macerie, da togliere di mezzo, e accumulare da qualche parte. Le macerie non scompaiono mai, le sposti, le distribuisci, ma sempre macerie rimangono, a peritura memoria. E la crosta infranta lascia la carne scoperta, una ferita viva che il sangue dovrà impegnarsi a rimarginare. Come minimo un livido, una cicatrice, che quando la tocchi, sai, sempre, anche dopo anni.
Alzarsi, iniziare a leggere, ma piano. Le parole non scivolano, ogni pagina un sentiero che si inerpica, inanellando un respiro a una emozione a una immagine a un mondo lontano e, però, conosciuto. Non sono parole difficili, ma andare avanti richiede energia, di più, impegno a non essere frettolosi, perché l’unico modo per andare di fretta è saltare le parole, e così perdere pezzi.
Non bisogna perdere niente. Sentire nel bel mezzo della tempesta delle emozioni. Non aggirare, altrimenti nulla cambia, sembra che passi, ma è un miraggio. Aggirare è come prendersi in giro. Farci i conti per il tempo che serve, stando attenti a non compiacersi troppo, nel sentirsi troppo a proprio agio. Non è il posto giusto dove stare, quello. Ci ci sta perché siamo vivi, cerchiamo la relazione e inseguiamo la felicità, e nel libero arbitrio ci capita di ferire ed essere feriti. Indugiamo, attraversiamo, ci guardiamo intorno, rendiamo familiare quello che proviamo (inizialmente estraneo). Dopo un tempo che non conosciamo a priori, si passa oltre.