La primavera è cangiante, mutevole, volubile, un’amante bizzosa e irrequieta.
Segno di questo l’esplosione di piante spontanee, ai bordi di tutte le strade, un meraviglioso incedere della natura in barba a qualunque controllo l’uomo voglia avere.
Tra queste, il papavero appare improvviso e domina con immensità per un tempo breve, portando con sé una bellezza straniante.
La cosa incredibile è che, quei petali leggeri e fragili (in apparenza), una volta andati via, svelano l’ennesima sorpresa, un piccolo contenitore di semi, simmetrico, ipnotico, vertiginoso, fatto per incuriosire menti bisognose di cura e affetto (e la maggior parte degli esseri umani è vittima di queste piaghe universali).
E adesso aspetto. Aspetto che secchino per capire meglio come agire. Perché oggi ne ho prese alcune e mi sono preso la briga di disfare una delle capsule, ma era acerba e verde. Non era pronta e ho dovuto provare sulla punta delle dita che le pareti non cedevano, ho dovuto strapparle con la forza. Mi sono reso conto che non era quello il modo. Non era quello il tempo.
Attesa dunque. Che il sole faccia la sua parte, asciughi con dolcezza, nel vento tiepido delle ore, ogni millimetro, lasciando angoli, vertici, cuspidi, dove ogni seme, piccolo e immenso, possa giacere inebriato della propria posizione originale.
Un percorso di conoscenza.
Papaveri che aprono all’estate, che creano mari lontano dall’acqua, immensi distese di voluttà, steli flessibili che si piegano come giunchi, ma più sottili, più sensuali, gambe di donna, labbra dolci, ai confini del cemento, per sciogliere le complessità che ci siamo inventati in secoli di progresso. In parte, cosiddetto.